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Young Americans: A Plastic Soul Trip

In attesa dell’uscita del cofanetto “Who Can I Be Now?” e di “The Gouster”, Walter Bianco (amministratore del più numeroso gruppo Facebook su David Bowie, David Bowie Fans Italia) analizza la genesi, la storia e l’eredità di “Young Americans”.

 

 

1. Un album importante e controverso

Young Americans (1975)
Young Americans (1975)

Young Americans”, nono album di studio di David Bowie, pubblicato nel Marzo del 1975, è sicuramente uno degli album più importanti e controversi dell’intera carriera dell’artista.

Che sia uno dei più controversi è fuori di ogni dubbio. Non sono molti i fan di Bowie, anche tra quelli più accaniti, pronti a considerarlo nel novero dei suoi lavori preferiti. La critica si è sempre divisa tra chi ne fa uno dei più fulgidi esempi della capacità del “duca bianco” di spaziare coraggiosamente tra i generi, e chi lo ha guardato con sospetto o addirittura con ostilità, considerandolo, al contrario, un esempio del classico “cinismo” ed “opportunismo” artistico che per anni è stata la critica per eccellenza rivoltagli. Infine, all’indubbio successo negli Stati Uniti, capace di aprire a Bowie le porte del tanto agognato “mercato americano”, non è corrisposta un’altrettanto calorosa accoglienza in patria.

Ciò detto, “Young Americans” è però anche uno degli album più importanti della carriera di Bowie, e questo è molto meno scontato ed ovvio: è stato infatti la chiave che ha permesso all’artista di liberarsi dal rischio di impantanarsi artisticamente nel cliche del glam rock, che, se nel 72 era stato il vessillo di una nuova generazione, già nel 74 stava diventando in Gran Bretagna una baracconata ripetitiva e a tratti ridicola. Young Americans, con la sua imprevedibile virata nella musica nera, nel soul del philly sound e nel funky, è stato un modo per dare a Bowie lo shock artistico di cui aveva bisogno per sterzare verso direzioni musicali nuove ed imprevedibili. Esso inoltre ha consentito l’incontro con alcuni collaboratori che, garantendogli una solida base funky, sarebbero stati uno degli ingredienti più originali di quello strano ibrido sonoro che sarebbe poi stato creato dall’artista nella seconda metà degli anni Settanta. Infine, gli ha consentito di crearsi un nome negli Stati Uniti, conquistando quel consenso che fino a quel momento, al di là dell’oceano, stentava a raggiungere.

La storia della genesi di questo album, nato in un periodo di fervida attività creativa di Bowie, e al tempo stesso di preoccupante abuso chimico delle proprie forze fisiche e mentali, è particolarmente ingarbugliata e complessa, a riprova della ribollente creatività e velocità che caratterizzavano Bowie in quegli anni.
Andiamo a scoprire quindi come è nato questo album che consacrò Bowie nelle classifiche di Billboard e nei cuori degli americani.

 2. I Cani di Diamante aprono la strada

young americansChe Bowie, nel 1974, avesse in mente di guardare musicalmente verso la musica nera, era emerso in maniera sottile già nell’album Diamond Dogs, ed in particolare nello pseudo-soul di “Rock’n’roll with me” e nel funky alla Isaac Hayes di “1984”. Quei pezzi, spiegò lo stesso Bowie, “mi hanno fatto capire che c’era almeno un altro album dentro di me che mi sarebbe piaciuto fare”.

Questo interesse si era manifestato in modo ancora più evidente negli arrangiamenti e nell’impostazione musicale della prima leg del Diamond Dogs Tour, in cui il suo  repertorio era stato pesantemente rimaneggiato in chiave soul, fino a trasformare totalmente alcuni pezzi, come testimoniato dalla registrazione poi diventata l’album live “David Live”, registrato – guarda caso – al Tower Theatre di Philadelphia.

Il suo trasferimento a New York, con la frequentazione abituale dell’Apollo Theatre, tempio della musica nera, per di più in un momento in cui la cosiddetta Blacksploitation aveva raggiunto il suo culmine;  l’incontro col chitarrista ritmico di origini portoricane Carlos Alomar e le altre conoscenze nel mondo della musica nera che questi ha portato con sé, furono la scintilla che fece esplodere la voglia di Bowie di confrontarsi col soul, col funky e col rythm’n’blues, generi che da ragazzo aveva amato e seguito assiduamente, come molti suoi coetanei britannici.

Arrivato a N.Y., Bowie – come racconta Tony Visconti – per settimane assorbì tutta la musica nera che poteva, chiedendo a Corinne Schwab di procurargli oltre 300 album tra i suoi autori ed interpreti preferiti, che spaziavano dal Blues al Soul dal Funky al R’n’b. Una vera full immersion per entrare nei suoni, nei ritmi e nel mood di quel mondo musicale.

In parte grazie agli incontri fatti durante le registrazioni per il disco di Ava Cherry ai Sigma Sound Studios di Philadelphia, patria del  cosiddetto Philly Sound, in parte grazie ai contatti di Carlos Alomar, Bowie conobbe e riuscì a coinvolgere personaggi come il percussionista Larry Washington, il grande bassista degli Isley Brothers, Willy Weeks, o come quello che sarebbe poi diventato un vero mostro sacro della musica nera, Luther Vandross alle voci d’accompagnamento.

Tale era l’eccitazione di Bowie per il nuovo mondo musicale che gli si apriva davanti, che l’interesse per il materiale da poco pubblicato, come l’album Diamond Dogs e la mastodontica produzione del relativo tour, sparirono completamente dai suoi interessi.

Era il momento di scatenare la black soul che aveva dentro.

3. Le prime sessioni – 9 Agosto /23 Agosto 1974 (circa): una furia creativa sotto gli effetti della cocaina

who can i be now shapiroLe registrazioni del nuovo album iniziarono il 9 Agosto del 1974 ai Sigma Sound Studios di Philadelphia, durante la pausa tra la prima e la seconda leg del Diamond Dogs Tour.
Alla produzione Bowie chiamò Tony Visconti, dopo essersi reso conto della difficoltà di prodursi da solo durante la lavorazione di Diamond Dogs. Visconti aveva aiutato Bowie nelle registrazioni di Diamond Dogs, riprendendo una collaborazione che si era interrotta dopo The Man Who Sold The World di quattro anni prima.
Bowie dormiva di giorno e lavorava di notte, sostenuto da un abuso sempre più evidente di cocaina. Le registrazioni però avevano un’atmosfera positiva, seppur febbrile. Il suo entusiasmo per il nuovo materiale era palpabile e spesso le registrazioni diventavano delle jam session in cui il primo take era quello buono.

Come collaboratori, Bowie avrebbe voluto ingaggiare l’intera resident band dei Sigma Sound Studios, i M.F.S.B. (Mother, Father, Sisters and Brothers, o, come qualcuno sussurrava, Mother Fucker Sons of Bitch), ma, per impegni concomitanti, si rivolse in parte alla band del Diamond Dogs Tour, in parte ad alcuni straordinari session men. Così, il personale fu composto da Carlos Alomar alla chitarra, Mike Garson al piano, David Sanborn al sax, Willie Weeks al basso, Andy Newmark alla batteria, Larry Washington e Pablo Rosario alle congas e percussioni, Ava Cherry, Robin Clark, Luther Vandross, Antony Hinton,  Diane Sumler ai backing vocals, e dallo stesso Bowie alla chitarra ed al pianoforte, oltre che ovviamente alla voce.
In questa prima fase furono registrate: una prima versione di quella che poi sarebbe diventata la title track e che, al momento si chiamava Young American, Right, Somebody Up There Likes Me, Can You Hear Me?, After Today, Who Can I Be Now?, It’s Gonna Be Me, una versione di John, I’m Only Dancing nuova e totalmente stravolta, al cui titolo fu aggiunta la parola (again)”; nonché tre pezzi di cui sono pervenuti a noi solo dei frammenti, Fat Polka, Shilling The Rubes  e Lazer.
Durante quelle nottate passate a registrare, davanti agli studi stazionarono stabilmente un nutrito gruppo di fan, divenuti celebri come i “sigma boys” che col tempo finirono col familiarizzare coi membri della band e con lo stesso Bowie, il quale, alla fine delle sessioni, li accolse in studio per un ascolto “in anteprima” del materiale registrato.

Esiste una bobina di quelle registrazioni, datata 13 Agosto 1974, che qualcuno trent’anni dopo cercò di vendere su ebay, per poi ritirare il tutto sotto minaccia di azioni legali.

4. “Shilling The Rubes” , “The Gouster” o “Fascination”?

who can i be now shapiro 3A settembre le registrazioni furono interrotte per proseguire il Diamond Dogs Tour. Tuttavia a Bowie, a questo punto, non interessava più nulla della mega-produzione, art-rock decadente e distopica dello spettacolo che stava portando in tour già da qualche mese negli states, e, contro il parere di un Tony De Fries sempre più contrariato dalla strada presa dal suo “cliente”, mutò drasticamente sia la band che la scaletta, oltre che la scenografia, trasformando lo show in una sorta di concerto soul-rock, in cui cominciavano a vedere la luce dal vivo i pezzi su cui aveva lavorato durante l’estate: un ibrido strano e sconcertante, che raccolse le critiche di un caustico Lester Bangs, il quale non risparmiò la sua tagliente ironia nei confronti dell’ex-ziggy-stardust-ora-soul-singer.

A Novembre del 74 Bowie e Visconti tornarono negli studi di Philadelphia, per effettuare sovra incisioni ed rifiniture ai pezzi già realizzati e per fare delle scelte nella composizione di quella che si pensava sarebbe stata la scaletta definitiva, effettuando una scrematura non facile, considerata la quantità di materiale registrato. Secondo il biografo David Buckley, risale a queste sessioni la registrazione della cover di un brano di Bruce Springsteen, “It’s Hard To Be A Saint In The City”, mentre Nicholas Pegg la fa risalire alle sessioni di agosto. Comunque sia il brano non si guadagnò mai un posto nella tracklist dell’album.

A questo punto della lavorazione, il titolo provvisorio dell’album doveva essere “The Gouster” (dallo slang americano “un tipo fico un po’ spaccone”, ma con una inquietante alternativa nella pronuncia corrispondente alla parola “The Gowster” ossia “un drogato di eroina o droghe pesanti”), che sostituì quello, decisamente autoironico, di “Shilling The Rubes”, che più o meno significa “prendere in giro i creduloni”. La scaletta, così come fissata dallo stesso Bowie e da Visconti su un appunto di lavorazione doveva essere così composta:

Lato A

  1. John, I’m Only Dancing (again)
  2. Somebody Up There Likes Me
  3. It’s Gonna Be Me

Lato B

  1. Who Can I Be Now
  2. Can You Hear Me
  3. Young American (ancora al singolare)
  4. Right

In quel periodo Bowie ebbe modo di presentare anche Young American(s) al grande pubblico televisivo, nella celebre e strampalata partecipazione al Dick Cavett Show, nel Novembre del 74, in cui si presentò nel suo nuovo look, apparentemente molto “down to earth” rispetto alle tute ed ai costumi di Ziggy, ma paradossalmente risultando ancora più alieno ed indefinibile come persona e personaggio.

Nel frattempo, a Dicembre del 74, l’artista aveva composto altri due pezzi, ai quali rapidamente si affezionò molto: Win, e Fascination, un riadattamento di un brano intitolato Funky Music, e scritto da Luther Vandross (quando Bowie gli chiese se poteva usare e rimaneggiare la musica del suo brano, Vandross gli rispose: “Cavolo, io vivo ancora a casa con mia mamma, e tu sei David Bowie. Certo che puoi!”). I brani furono registrati e mixati ai Record Plant Studios di New York da Visconti e David Samborn, insieme allo stesso Bowie. Alla stampa, egli dichiarò che il nuovo album si sarebbe intitolato Fascination, e dalla scaletta consegnata a Visconti, per il mixaggio, e che sarebbe dovuta essere quella definitiva, i due pezzi nuovi sostituirono Who Can I Be Now? e Somebody Up There Likes Me

A questo punto, Tony Visconti lasciò Bowie a New York e si recò a Londra, per realizzare alcune sovraincisioni di archi agli AIR Studios di Londra, e per realizzare il mixaggio finale dell’album.

L’artwork pensato per l’album, dopo aver dovuto abbandonare l’idea di un dipinto originale di Norman Rockwell, i cui tempi di realizzazione erano troppo lunghi per le esigenze di pubblicazione dell’album, fu quello di una foto in bianco e nero di Bowie in tuta da aviatore ed una bandiera americana sullo sfondo, un manifesto programmatico, al tempo stesso ruffiano e provocatore, in un’epoca in cui la tremenda ferita del vietnam era ancora profondamente viva e dolente.

5. L’incontro fatale con John Lennon: il resto è “Fame”!

who can i be now shapiro 4Nel dicembre del 74,  John Lennon si trovava ai Record Plant Studios di New York, intento a dare il mixaggio ed i ritocchi finali al suo album intitolato  “Rock’n’roll” e fu lì che Bowie lo incontrò. Superata una prima soggezione nei confronti dell’ex-beatle, tra i due scoccò subito l’intesa.

Fu così che, alcuni giorni dopo, nei primi di Gennaio del 75, negli Electric Lady Studios di New York, i due diedero vita ad una sorta di lunga Jam Session, che avrebbe cambiato radicalmente l’aspetto del nascituro album, ed anche le sorti commerciali di Bowie negli States, dando vita ad uno dei pezzi più classici della carriera del “duca bianco”.

Nelle sessioni di registrazione furono coinvolti musicisti quasi completamente diversi da quelli di Philadelphia: il giovane Earl Slick alla chitarra solista, Emir Ksasan al basso, Dennis Davis alla batteria, Ralph McDonald alle percussioni, Jean Fineberg e Jean Millington alle voci di accompagnamento. Inoltre alla voce ed alla chitarra, oltre a Bowie, partecipò lo stesso John Lennon.

Dapprima questo gruppo realizzò una cover di Across The Universe, celeberrimo pezzo tratto dall’ultimo album dei Beatles, Let it be, rispetto alla quale, John Lennon si disse molto più soddisfatto rispetto alla trasognata e morbida versione originale. Quindi, prendendo un riff di chitarra realizzato da Carlos Alomar per la cover di Footstompin’, e rallentandolo, nacque la base per l’ultimo pezzo realizzato per l’imminente album: Fame.

Il brano è una disincantata riflessione sugli “effetti collaterali” del successo e su quanto esso, una volta raggiunto, appaia molto meno desiderabile di quanto lo si immaginasse quando lo si cercava spasmodicamente, come ha fatto lo stesso Bowie per tanti anni. E’ ormai noto il fatto che, in realtà, l’idea del titolo e del ripetuto richiamo della parola “Fame” durante le strofe del pezzo, sia nata da uno strano suono di chitarra prodotto da Lennon e che suonava più o meno come “eim…”. Bowie, diversi anni dopo, racconto tra il serio e lo scherzoso, che bastò aggiungere una “f” ed il gioco era fatto.

La produzione dei due brani fu affidata ad Harry Maslin, che ritroveremo anche nel successivo album, Station to Station.
Bowie a quel punto dovette annunciare a Visconti che l’album subiva una radicale trasformazione: fuori It’s Gonna Be Me e Who Can I Be Now, insieme a John I’m Only Dancing (again) e dentro i due brani realizzati con John Lennon e che si staccavano notevolmente dal sound degli altri pezzi che componevano l’album.

Il disappunto di Tony Visconti fu notevole, sia perché gli esclusi erano due pezzi che lo convincevano molto, sia perché era stato tenuto fuori dalle sessioni di registrazione con John Lennon.

Si arrivò così alla tracklist definitiva, che apriva con Young Americans, ora al plurale, e proseguiva, sul lato a con Win, Fascination e Right. Il Lato B si apriva con la lunga digressione di Somebody Up There Likes Me, e proseguiva con Across The Universe, Can You Hear Me? e si concludeva con Fame. Anche alcuni missaggi di brani già compresi nella tracklist furono rivisti per dar loro un approccio più morbido e soul, rispetto ai primi missaggi più “estremi” e meno patinati. Anche l’artwork dell’album fu “ammorbidito”, scegliendo una foto del fotografo Eric Stephen Jacobs, con un Bowie in versione “confidential”, languidamente appoggiato sulle braccia, mentre un filo di fumo sale in morbide spirali da una sigaretta accesa tra le dita. Paradossalmente nemmeno quella copertina coglieva tuttavia l’attuale immagine di Bowie: scattata nell’agosto del 74 lo vedeva ancora senza sopracciglia, un retaggio del periodo glam, mentre all’epoca in cui fu pubblicato l’album, il 7 Marzo del 75, Bowie aveva di nuovo le sue sopracciglia e sfoggiava lo splendido taglio di capelli noto come “the wedge”, abitualmente utilizzato per tagli femminili, che fa bella mostra di sé nel set fotografico realizzato da Steve Schapiro e nel film L’Uomo che cadde sulla Terra, girato nell’estate del 75.

6. Il Successo commerciale e l’accoglienza della critica

gouster 5Non è un mistero che Bowie, con Young Americans, volesse definitivamente conquistare il consenso che finora aveva faticato ad ottenere negli States.
A dire il vero, già Diamond Dogs aveva ottenuto un ottimo quinto posto nelle classifiche statunitensi, consolidato dall’ottavo posto raggiunto da David Live.
Young Americans, come album, raggiunse il 9° posto in classifica su Billboard, ma rimase in classifica per un periodo molto lungo, a riprova dell’accoglienza calorosa del pubblico di oltreoceano che si fece convincere dal blue-eyed soul e dal funky bianco di Bowie.
In Gran Bretagna, invece, mancò l’obiettivo di conquistare il primo posto in classifica,   risultando più ostico per il suo pubblico d’origine, ancora troppo legato al periodo glam dell’artista e diffidente nei confronti della disinvoltura con cui si era lanciato nella musica nera.
E se il primo singolo, Young Americans, non ottenne un risultato soddisfacente, anche a causa di un taglio brutale delle strofe centrali e di un conseguente remixaggio che definire grossolano è dire poco, fu Fame a regalare a Bowie il primo 45 giri sulla vetta della classifica Billboard dei singoli: un successo in grado di aprire all’artista le porte dello show biz, delle tv, del giro che conta nel mondo dell’intrattenimento americano.

La critica, in molti casi, al di qual ed al di là dell’oceano, non fu molto tenera con quest’album: il sospetto che si trattasse dell’ennesima “maschera” usata da Bowie, inquinata però dal sentore di “opportunismo”, ha portato molti critici ad esprimersi con una certa severità nei confronti di quest’album. Solo il tempo avrebbe reso giustizia al coraggio ed alla spregiudicatezza di Bowie, il cui sincero entusiasmo per la musica nera è testimoniato da tutti coloro che collaborarono con lui in quel lavoro, da Tony Visconti a Carlos Alomar, da Ava Cherry a Robin Clarke.

In ogni caso, Young Americans, insieme al predecessore ed a Station to Station, dell’anno seguente, fecero in modo che David Bowie diventasse uno dei personaggi chiave del triennio 74-76 negli Stati Uniti.

7. Le ristampe

E’ merito della Ryko Disc e della sua serie di ristampe del catalogo di Bowie quello di aver per la prima volta alzato almeno in parte il velo su alcuni dei brani realizzati per Young Americans e mai finiti sulla tracklist definitiva: nel 1991 la ristampa di Young Americans targata Sound+Vision conteneva infatti Who Can I Be Now?, It’s Gonna Be Me e la bizzarra John I’m Only Dancing Again.

In occasione (più o meno) del trentennale dell’album, fu pubblicata nel 2008 una versione de luxe cd+dvd, che conteneva  gli outtake già pubblicati dalla Ryko Disc, ma con un differente mixaggio, corrispondente a quello realizzato da Tony Visconti a Londra, ed infatti It’s Gonna Be Me contiene un arrangiamento per archi che era assente nella ristampa Rykodisc, ed alcuni diversi mixaggi per alcuni brani, come Fame.

8. Cosa rimane dei “Giovani Americani”

gousterYoung Americans ha dimostrato col tempo la sua importanza, sia nell’ottica del percorso artistico di Bowie, sia nel contesto della musica pop degli anni, e dei decenni seguenti.

Per Bowie, tuffarsi nella musica nera ha significato principalmente, sotto un profilo ritmico, acquisire un’attitudine funky ed un’attenzione al ritmo ed al groove, che non lo avrebbe più abbandonato e che è alla base del fascino “ibrido” ed indefinibile di molte sue composizioni, anche le più apparentemente lontane dalle atmosfere black: si pensi alla ritmica di alcuni pezzi del “lato A” di Low. In fin dei conti sono squisitamente funky, sebbene vestiti di abiti algidi ed elettronici.
Inoltre, da un punto di vista vocale, con Young Americans, album peraltro cantato in maniera splendida, Bowie ha definitivamente ampliato la paletta delle sfumature delle sue interpretazioni vocali. Se ai tempi del glam la sua era una voce bianchissima, nasale, molto “britannica”, molto “pop”, grazie ai suoi sforzi di “ approfondire” la voce e di darle il calore ed il colore tipico di certi performer neri, ha arricchito le sue capacità interpretative, con quella timbrica da crooner che poi è diventata uno dei suoi marchi di fabbrica. Infine gli ha consentito di liberarsi dal retaggio dell’epoca glam, che rischiava di trasformarlo nella caricatura di sé stesso, aprendogli nuovi mondi musicali dai quali avrebbe saputo trarre ciò che serviva alla sua musica per evolvere e trovare strade nuove.

Da un punto di vista più ampio, Young Americans ha dimostrato, per la prima volta, che la barriera tra musica bianca e musica nera, tra rock e soul, non era il tabù incrollabile che all’epoca si pensava, e che la contaminazione tra i due mondi, se fatta con l’originalità e la creatività di cui lui è stato capace, è in grado di portare elementi di novità e di evoluzione in entrambi gli ambiti. I frutti si sarebbero visti nel decennio successivo: ci sarebbero voluti esattamente dieci anni prima che l’Inghilterra fosse invasa da una pletora di blue eyes soulmen, che avrebbero percorso quella strada aperta, ancora una volta con solitaria preveggenza, da Bowie dieci anni prima.

Adesso che la Parlophone si avvia a pubblicare un cofanetto che raccoglie la discografia di Bowie nel cruciale periodo del 1974-1976 e che per la prima volta fa uscire, in vinile, quel “The Gouster” rimasto solo nei desideri di Tony Visconti, ma mai pubblicato per far spazio alla sua evoluzione, Young Americans, è un’occasione per riascoltare quell’album e riconsiderare l’importanza che ha avuto per Bowie e per la musica in generale.

YOUNG AMERICANS: BRANO PER BRANO

1. “Young Americans”
Fu il primo pezzo ad essere registrato, nel primo giorno di sessioni, l’11 Agosto del 74.
Il brano è un brioso pezzo funky, in cui sulla chitarra ritmica di Carlos Alomar, a farla da padrone sono gli inserimenti di sassofono di David Sanborn.
La voce di Bowie non potrebbe essere più diversa da quella che ricordavano gli appassionati del suo periodo glam: la perfetta voce di un soul singer dagli occhi azzurri, intento a raccontare le contraddizioni e le angosce dell’america degli anni 70.
Fu un suggerimento di Luther Vandross a convincere Bowie della necessità dei cori che rimandano il titolo Young Americans in stile gospel nel ritornello.
Il singolo uscito nel Febbraio del 1975, in inghilterra ottenne un 12mo posto, abbastanza modesto per gli standard di Bowie all’epoca. In USA, in versione rimaneggiata pesantemente, ottenne il 23mo che era la posizione più alta fino ad allora raggiunta da un brano di Bowie.

2. “Win”

Una morbida ballad dalle languide chitarre e dai morbidi accenni di sassofoni, il tutto arricchito da cori non invadenti, con Bowie che croonereggia come mai fino a quel momento, Win è considerata in generale una delle migliori composizioni dell’album anche da chi in genere non ama Young Americans. Il brano non era previsto nella primissima scaletta dell’album, perché la registrazione fu completata solo nelle sessioni ai Record Plant Studios nel dicembre del 74. Molti critici hanno sottolineato la straordinaria prestazione vocale di Bowie in questo brano.

3. “Fascination”
Uno strepitoso riff di basso e chitarra introduce uno dei pezzi più funky dell’intero album.
Fascination, una sorta di mantra sulla forza della “fascinazione” e sull’effetto che produce nelle persone, è uno dei momenti più riusciti dell’intero album.
Si tratta di una rielaborazione di un pezzo di Luther Vandross, “Funky Music”, ed infatti il grande Vandross, all’epoca ancora sconosciuto, è nei credits del brano.
Anche Fascination fu completata solo nel dicembre del 74 e, ad un certo punto della lavorazione dell’album, Bowie aveva ipotizzato di trasformarla nella title track.

4. “Right”
Il pezzo che chiude il lato A è un grandioso pezzo funky, che dimostra la straordinaria professionalità di tutti i collaboratori chiamati a realizzare quest’album, oltre che alla maestria vocale di Bowie.
Il pezzo fu registrato “live”, nel senso che le varie take vennero registrate con Bowie che cantava insieme ai coristi.
La chitarra funky di Alomar, il sax di Sanborn, il liquido, bellissimo basso di Willie Weeks, fanno da base perfetta per l’esplosione di virtuosismo vocale di Bowie e dei backing vocalists che dopo l’intro iniziano un “botta e risposta” giocato ad incastri, come raccontato nele straordinarie immagini trasmesse per la prima volta nel documentario David Bowie Five Years.

5. “Somebody Up There Likes Me”
Uno dei primi brani ad essere registrati, nell’agosto del 74 fu questo strano pezzo.
All’apparenza una lunga e un po’ sdolcinata ballata soul, con coloriture gospel, in realtà – per chi abbia l’attenzione di leggerne il testo – è una lunga invettiva contro la facilità con cui l’uomo forte e carismatico riesce a diventare padrone dei consensi delle folle. Un tema che difficilmente si sarebbe mai trovato in un brano soul, a dimostrazione del fatto che, comunque, Bowie anche in Y.A. conservò comunque il suo originale approccio verso la musica ed i suoi messaggi.
Il brano è una rielaborazione di un pezzo precedentemente registrato per le Astronettes, I Am Divine, e che all’inizio delle registrazioni, sarebbe dovuto entrare nella sua versione originaria nella setlist dell’album.

 6. “Across the Universe”
Il primo dei due “frutti” della estemporanea collaborazione di David Bowie con John Lennon, nata da un incontro casuale ai Record Plant Studios di NY, poi trasformatisi in una jam session agli Electric Lady Studios, è la cover del brano omonimo pubblicato nell’ultimo album dei Beatles.
Lennon si sente nella seconda voce, mentre la band è quasi completamente diversa da quella che ha suonato negli altri brani.
L’inserimento di Across The Universe è una delle scelte più discutibili dell’intero album, avendo poco o nulla a che fare col resto dei brani, tanto più che la mole di pezzi originali realizzati e non utilizzati rende ancora più incomprensibile la decisione di Bowie, come ben sa Tony Visconti che ne rimase sconcertato e contrariato.

7. “Can You Hear Me”
in effetti, questo, è uno dei brani grazie ai quali è nato Young Americans. Bowie la scrisse per Lulu, e fu proprio in quel periodo che incontrò Carlos Alomar, venendo introdotto dal chitarrista, in un contesto musicale che Bowie avrebbe trovato così stimolante ed elettrizzante da tuffarcisi senza titubanze.
Il brano è una bella e sensuale ballad, impreziosita dagli arrangiamenti per archi di Tony Visconti e dai morbidi cori di accompagnamento.

8. “Fame”
L’ultimo brano realizzato per Young Americans è anche quello che avrebbe dato a David Bowie l’unico n° 1 nella classifica dei singoli negli Stati Uniti, almeno fino a Let’s Dance di otto anni dopo.
Come è ormai noto, tutto nasce da un riff di chitarra, quello ideato da Carlos Alomar per l’arrangiamento della cover di Footstompin’ che la band usava proporre dal vivo, durante le date del “Philly Dogs” Tour.
Bowie accarezzò l’idea di farne una versione in studio ed inserirla in Young Americans, tuttavia in studio il pezzo risultava fiacco e senza nerbo.
Egli decise quindi di buttare via il resto, tenere il riff, rallentarlo e farne la base sulla quale lavorare, suonando anche lui la chitarra insieme a John Lennon, nell’ultima sessione di registrazione, nel Gennaio del 1975.
Il brano, una invettiva contro le false attrattive del successo, col suo groove accattivante, divenne il secondo singolo tratto dall’album e se in Inghilterra non impressionò più di tanto il pubblico, in USA divenne uno straordinario successo, aprendo a Bowie le porte del “salotto buono” dello show business.
Col tempo sarebbe diventato un classico immancabile nelle scalette dei concerti dal vivo.

YOUNG AMERICANS: GLI OUTTAKES E RARITA’

1. “After Today”
Registrata all’inizio della lavorazione di Young Americans, After Today è un brioso pezzo funky dall’atmosfera positiva e la ritmica uptempo. Bowie sfoggia uno straordinario falsetto, accompagnato dal sax di Sanborn.
Esiste un’altra versione di questo brano, molto più lenta, quasi una ballad, ma per ora quella che conosciamo è solo questa.

2. “John, I’m Only Dancing (Again)”
Più che di una nuova versione dell’omonimo brano del 72, si tratta di una canzone completamente nuova, che ricorda vagamente la prima nella melodia del ritornello, di cui condivide le parole.
Per il resto è un pezzo funky nato da una lunga jam session nell’Agosto del 74. Bowie arrivava in studio tardi in serata e continuava a cantare ed a lavorare sui pezzi durante tutta la notte ad un ritmo frenetico.
Questa Jam Session diede luogo a questo pezzo, della considerevole durata di oltre 7 minuti, in stile funky-disco, in cui Bowie si lancia in una straordinaria performance vocale, senz’altro la cosa migliore dell’intero pezzo.
Il pezzo per lungo tempo è rimasto nella tracklist dell’album, per esserne tolto solo nel dicembre del 74.
Ha visto la luce solo nel 79 come singolo, in una versione ridotta .

3. “Who Can I Be Now?”
Questo brano parte come ballad intima in cui Bowie riflette sull’identità e sull’apparenza, tema a lui caro, per poi trasformarsi in un grandioso e lussureggiante pezzo gospel, con uno straordinario David Sanborn al sax e dei cori grandiosi.
Melodia bellissima e di grande presa, intepretazione vocale impeccabile.
Non è difficle capire il motivo per cui Tony Visconti rimase così deluso quando seppe che Bowie aveva deciso di depennare questo pezzo dalla tracklist definitiva dell’album, per fare spazio ad Across The Universe.
Un artista che si poteva permettere un outtake di questo genere, si poteva permettere assolutamente tutto.

4. “It’s Gonna Be Me”
Se è difficile immaginare che Bowie abbia potuto decidere di escludere Who Can I Be Now dalla tracklist di Young Americans, è quasi impossibile pensare che abbia escluso un capolavoro come It’s Gonna Be Me, un vero gioiellino soul, in cui tutto è perfetto, dal pianoforte di Mike Garson ai cori per arrivare alla straordinaria performance vocale di Bowie. E pensare che solo un anno prima era l’eroe del glam rock, mentre qui si lancia in una perfetta performance soul, con la voce graffiata e calda.

5. “It’s Gonna Be Me” (con sessione di archi)
Nel 2008, per l’edizione del trentennale di Young Americans, Tony Visconti realizzò un remix dell’album, aggiungendo l’arrangiamento per archi che aveva preparato nelle sovraincisioni fatte agli AIR STUDIOS di Londra a Dicembre del 74, prima che Bowie lo avvisasse che il pezzo era stato escluso dalla tracklist. Inoltre viene aggiunto un effetto riverbero alla voce (di cui forse non si sentiva il bisogno).

6. “The Gouster Session”
Nel settembre del 2009 comparve dal nulla una bobina datata 13 Agosto 1974, quindi appena 2 giorni dopo l’inizio delle registrazioni per Young Americans, con questi accenni di pezzi: Shilling The Rubes, I Am A Laser, After Today e Young American.
Fu messa in vendita su ebay e immediatamente ritirata sotto minaccia di azioni legali.
Poi ovviamente finì su Youtube e così tutti possiamo ascoltare questa rarissima -e bellissima – testimonianza della fase di lavorazione dell’album

7. “I Am Divine” ( l’antenato di “Somebody Up There Likes Me”)
Qui si sente alla voce, ovviamente, non David Bowie, ma Geoffrey McCormack.

YOUNG AMERICANS: LA COPERTINA ORIGINALE

Originariamente l’album doveva avere una copertina in bianco e nero con una foto di Bowie in tuta da aviatore sullo sfondo della bandiera americana. Ecco alcuni scatti di quella sessione

 

Fonti

David Buckley – Strange Fascination:  David Bowie The Definitive Story

Nicholas Pegg – The Complete David Bowie

Dave Thompson – Moonage Daydream

Record Collector  (gennaio 2007)

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Soul Star

Negli anni primi del 70 si era molto consumato un modo di essere GAY, dettato da movenze e concezioni da starlette, molto dettate dal “GLAM ROCK” e questa liberazione aveva trasformato la gioventù, in quella situazione…di essere finalmente libera e di essere dichiaratamente “GAY”, DAVID BOWIE aveva aperto questo mondo a tutto il mondo, Mark Bolan, faceva sentire tutti vampirette, DAVID faceva sentire tutti capaci di essere LADY Stardust, il passo in avanti, non una sola cosa ma la simbiosi della convenzione uomo donna, non si era così più e mai più, si poteva condividere le due cose, quando vedevi… Leggi il resto »

Roby 22

Articolo bellissimo per completezza e dovizia di particolari. Young fu il primo disco di Bowie che NON comprai, ossessionato dal terrore che si trattasse di una produzione DISCO, e non ebbi neppure il coraggio di ascoltarlo, almeno fino al 1977, il battesimo avvenne dopo l’acquisto di Low. Low, che grazie la sua forza evocativa la sua dinamicità compositiva e profondità mi permise di sdoganare Young Americans, convinto che dopo aver ascoltato Low avrei potuto sopportare qualsivoglia delusione. Negli anni ho imparato ad apprezzare la nuova frontiera musicale che rende il lavoro in studio post David Live, un passaggio tanto unico… Leggi il resto »